LA SENTENZA D’APPELLO – Pubblicate ieri a distanza di tre mesi le motivazioni della condanna del sacerdote
Mario Bertoldi
Per la condanna di don Giorgio Carli è bastata la parola della presunta parte offesa. Decisivi anche i consulenti dell’accusa: la Corte ha accolto in pieno il teorema della Procura
Nessun dubbio sulla veridicità dei ricordi riemersi grazie alle cure psicoanalitiche
BOLZANO. Ricordi lineari, precisi, mai contradditori. E’ stato il racconto-denuncia della presunta parte lesa a risultare decisivo nella sentenza con cui la corte d’appello il 16 aprile scorso ha condannato a 7 anni e mezzo di reclusione don Giorgio Carli, il sacerdote assolto in primo grado (da un tribunale tutto al femminile) dall’accusa di aver violentato per alcuni anni una parrocchiana che all’epoca dei fatti era una bimba. Dichiarazioni attendibili, dice la Corte, con efficacia probatoria piena.
Secondo la Corte, dunque, le sole dichiarazioni della ragazza sono sufficienti a dimostrare che i fatti raccontati siano effettivamente accaduti. In sentenza i giudici parlano di «comportamento processuale equilibrato» della denunciante e sottolineano come in tutta la vicenda non siano emersi interessi particolari che possano aver indotto la giovane a fornire un racconto non veritiero. Non solo. I riferimenti di tempo, dei luoghi, delle persone e delle cose indicate sono risultati tutti corretti. Nei ricordi, riemersi grazie dapprima all’interpretazione di un sogno e poi ad una lunga e articolata cura psicoanalitica, i particolari forniti sono risultati sempre numerosi, precisi e corretti. Sono perfettamente ancorati alla realtà – scrivono ancora i giudici d’appello – anche i riferimenti fatti dalla parte lesa (che è da ritenere perfettamente sana di mente) alle attività personali e parrocchiali. Le motivazioni della sentenza di condanna del sacerdote sono dimostrazione che la corte d’appello ha accolto in tutto e per tutto il teorema accusatorio sostenuto da Procura e parte civile. In 183 pagine dattiloscritte la corte ripercorre le tappe della vicenda ma arriva anche a definire il contesto ambientale in cui i fatti si sarebbero svolti, con un ambiente parrocchiale torbido in cui don Giorgio avrebbe avuto piena libertà d’azione per alcuni anni.
Sotto il profilo tecnico la corte d’appello smonta il percorso logico-giuridico del tribunale di primo grado: considera pienamente attendibile la ragazza denunciante e non ritiene che le deposizioni di alcuni testi (in primo luogo del ragazzino che avrebbe partecipato ad alcuni degli stupri in parrocchia) abbiano la forza di togliere credibilità al racconto della presunta parte lesa. E’ questo il passaggio che porta al ribaltamento della sentenza ed è soprattutto la deposizione del cosiddetto superteste a pesare. Il ragazzo che venne indicato come compartecipe degli stupri di don Giorgio (su regia dello stesso sacerdote che avrebbe filmato gli abusi) è stato considerato dalla corte palesemente inattendibile in quanto avrebbe reso dichiarazioni contradditorie e incoerenti, considerate dai giudici di secondo grado non idonee «ad inficiare l’attendibilità della persona offesa che, al contrario, ha reso deposizione estremamente lunga e al contempo lucida, lineare e coerente». Cosa aveva detto il giovane? In un primo tempo aveva lasciato intendere che quanto sostenuto dalla presunta parte lesa potrebbe essere stato vero, anche se personalmente non ricordava nulla. Successivamente, in aula a distanza di due anni, dichiarò (con risolutezza) che i fatti raccontati dalla donna che lo coinvolgevano non erano mai avvenuti. Lo stesso ragazzo era stato anche accusato dalla donna di ripetuti abusi sessuali nei suoi confronti per circa due anni nei bagni delle scuole medie «Alfieri» che entrambi frequentavano. Accusa che non ha mai trovato alcun riscontro (la zona dei bagni era sorvegliata dalla presenza dei bidelli sul corridoio) ma che i giudici d’appello non hanno preso neppure in considerazione (nemmeno a titolo di valutazione dell’attendibilità della ragazza) perchè non considerata nel capo d’imputazione.
«Confuse ed evasive» sono state considerate anche le deposizioni di altri due testi, che in primo grado erano state considerate in termini positivi per la difesa. Si tratta delle deposizioni del parroco don Gabriele Pedrotti e della catechista Culati Vigni, legati da un rapporto di affetto e di amicizia intima. Le loro dichiarazioni rese in aula nel processo di primo grado sono state definite «intrinsecamente contradditorie in contrasto con altri atti del processo, rispetto alle dichiarazioni rese in precedenza nella fase delle indagini preliminari, smentite in modo illogico e affatto convincente».
Un capitolo della sentenza depositata ieri è dedicato anche all’analisi critica del pronunciamento di primo grado che mandò assolto don Giorgio, seppur nel dubbio. I giudici d’appello ritengono che il tribunale abbia «omesso di valutare positivamente quali riscontri prove certe risultanti dagli atti».
La corte d’appello, dunque, parla di «prove certe» evidenziate e specificate in un lungo elenco di elementi tutti a suo tempo contestati dalla difesa del sacerdote (anche nella ricostruzione temporale) quali la macchie di sangue rilevate dalla madre nelle mutandine della piccola abusata, i riferimenti precisi della presunta parte lesa in relazione ai luoghi delle violenze, le dichiarazioni di don Pedrotti in una intercettazione telefonica in cui parla di uno «scivolone» di don Giorgio che «non si sarà probabilmente ripetuto» e le dichiarazioni al telefono della catechista Culati Vigni che, preoccupata per quanto emerso, parla di «un fondo di verità». Tutti elementi che, secondo la difesa di don Giorgio, sarebbero stati letti in termini suggestivi dalla Procura la cui impostazione, però, è stata accolta in pieno dai giudici d’appello con riferimento a deposizioni e testimonianze rese solo nel processo di primo grado, dunque lette dai verbali e non assunte in presa diretta. Poche righe (rispetto alle 183 pagine della sentenza) sono dedicate all’attendibilità di un ricordo-verità recuperato dopo mesi di cure psicoanalitiche: la sentenza elogia apertamente (e più volte) i consulenti della Procura e della parte civile, ritenendo al contrario non all’altezza della situazione i consulenti schierati dalla difesa che avevano sempre fatto riferimento ai possibili «falsi ricordi» che la psiconalisi può generare.
(Espresso Local 16 luglio 2008)
Ecco un vecchio articolo sul vescovo Egger, altri li trovate su questo blog
Per il vescovo Egger niente indagine interna dopo le accuse a Don Carli
Il vescovo non ha ritenuto necessario avviare un indagine conoscitiva interna alla Curia, benché l’abuso sessuali sui minori sia previsto anche dal codice ecclesiastico. E’ il dato più eclatante emerso dall’udienza del processo contro don Giorgio Carli, il sacerdote accusato di violenza carnale nei confronti di una giovane parrocchiana, e che ha visto in mattinata sulla sedia dei testimoni il vescovo della diocesi Bolzano/Bressanone, monsignor Wilhelm Egger il quale nel corso delle indagini preliminari si era avvalso della facoltà di non rispondere richiamandosi al Concordato e all’articolo 200 del codice di procedura penale. Sollecitato dalle domande di procura e parte civile, il vescovo ha ribadito di non aver disposto accertamenti interni in quanto era già in corso quello penale. “Non avevo nessun motivo per fare delle indagini” – ha detto monsignor Egger specificando che il trasferimento di don Carli dalla parrocchia di San Pio Decimo dove secondo l’accusa si sarebbero svolte le violenza sessuali a danno di una bambina che allora aveva appena 9 anni, non aveva nulla a che vedere con i fatti denunciati dalla presunta vittima. E non c’entrerebbero nulla nemmeno le dimissioni dell’allora parroco di san Pio Decimo don Gabriele Pedrotti dall’importante carica di vicario generale. Il vescovo ha ribadito di non aver mai avuto sospetti o ricevuto notizie dei presunti abusi sessuali prima dell’arresto di don Carli ed ha rifiutato di riferire in aula, avvalendosi del segreto professionale, dei colloqui avuti con le persone e tanto meno quelli con don Gabriele Pedrotti del quale, ha detto di non essere mai stato a conoscenza di una presunta relazione con una parrocchiana separata. La parte civile ha chiesto l’acquisizione agli atti del processo dei fascicoli di don Giorgio Carli e don Gabriele Pedrotti contenuti nell’archivio segreto della Curia.
Dopo il vescovo ha deposto l’imputato. Don Giorgio Carli, tranquillo e sorridente, ha negato decisamente di aver mai solo pensato di poter violentare chicchessia, specificando di non aver mai avuto rapporti sessuali con nessuno né prima né dopo il voto di castità. Il sacerdote di san Giacomo ha inoltre specificato che il suo rapporto con Stefania Viaro era, come con tutte le parrocchiane, improntato sull’amicizia e la serenità. “Con lei ho trascorso una notte a Spormaggiore in val di Non, dove l’avevo invitata a trascorrere un fine settimana sereno in quanto era in una situazione grave sia di salute che nel rapporto col marito. La parte civile ha chiesto un corposo risarcimento danni alla Curia, quantificabile tra uno e due miliardi di vecchie lire.
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