L’ultima carta della Franzoni

Il marito: torna Grosso, ha sempre creduto in lei. L’avvocato torinese affianca i legali in CassazioneENRICO MARTINET
TORINO
Così com’era cominciata: la vicenda giudiziaria del delitto di Cogne ritorna all’inizio quando a difendere Annamaria Franzoni sospettata di aver ucciso il figlio Samuele di 3 anni era l’avvocato Carlo Federico Grosso. Ora che la «mamma di Cogne» è stata condannata per il delitto anche in secondo grado e che manca poco più di un mese (il 21 maggio) all’udienza di Cassazione, Grosso sarà di nuovo a fianco di Annamaria. Lo ha chiamato l’avvocato Paolo Chicco di Torino, titolare dello studio di cui fa parte Paola Savio, subentrata a Carlo Taormina nella difesa durante il processo d’appello. Grosso ha letto le 200 pagine dei motivi di ricorso in Cassazione e ha risposto «sì, accetto». Ha spiegato: «Per arrivare a una condanna ci vuole la prova certa, al di là di ogni ragionevole dubbio. E la mia impressione, come già scrissi su La Stampa all’indomani della sentenza, è che questa prova certa, negli atti processuali, non ci sia».

Stefano Lorenzi, marito di Annamaria, dice: «Quando l’avvocato Chicco ci ha prospettato la possibilità che Carlo Federico Grosso avrebbe potuto far parte del collegio di difesa, Annamaria ed io siamo rimasti entusiasti». Eppure era stato sostituito da Taormina. Così aveva voluto papà Franzoni. In realtà Annamaria e Stefano avevano subito quella decisione. E Grosso, spiegando loro con garbo che il suo modo di condurre le cause era diverso da quello di Taormina, aveva lasciato. Lui, l’unico avvocato finora, ad aver avuto la propria tesi condivisa dai giudici. È anche per questo che Lorenzi aggiunge: «Il professor Grosso ha sempre manifestato la propria convinzione sull’innocenza di Annamaria. Anche quando non era più l’avvocato. Di questo gli saremo per sempre grati». Annamaria era in carcere quando Grosso presentò ricorso al Tribunale del Riesame di Torino e lo vinse. I magistrati accolsero la sua tesi, quella che le indagini avevano seguito una sola direzione, non analizzando a fondo la posizione di altre persone, tra cui i vicini dei Lorenzi. Una sentenza che fece scalpore. Annamaria tornò in libertà per la Pasqua del 2002. Poi la Cassazione diede ragione alla Procura di Aosta sulle indagini e contro quella sentenza del Riesame. Una delle tante tappe controverse e difficile di una vicenda giudiziaria fra le più confuse degli ultimi anni. Ora i giudici di Cassazione dovranno esaminare il ricorso della difesa della Franzoni che in Appello è stata condannata a 16 anni (14 in meno rispetto al primo grado). L’avvocato Paolo Chicco in quelle duecento pagine punta soprattutto su due problemi che a suo giudizio devono far tornare il processo in Appello. La perizia psichiatrica che Annamaria ha rifiutato e che è stata fatta sui documenti e sulle interviste televisive, su quelle dei giornali e perfino sui «fuori onda», cioè su frasi che l’imputata aveva detto prima e dopo le interviste. «Credo che tutto ciò si commenta da solo», dice il difensore della Franzoni che spiega: «E’ stata una perizia psicologica, non psichiatrica, e questo è vietato dalla legge». Perizia che aveva concluso definendo Annamaria affetta da una sindrome «ansiosa crepuscolare». Ancora l’avvocato: «Soprattutto i periti hanno concluso con la seminfermità che non è stata però concessa dalla Corte.

Sono state riconosciute ad Annamaria le sole attenuanti generiche, altrimenti la pena sarebbe stata di dieci anni, non di 16. La perizia ha pesato sulla decisione della Corte fornendo il presunto movente. Non è stata soltanto una ricerca sulla capacità di intendere e di volere di Annamaria, ma anche una ricostruzione dei suoi comportamenti prima e dopo la morte del bambino. Anche per questo diciamo che è una perizia psicologica». Ma la Cassazione dovrà valutare anche la lesione del diritto alla difesa. Secondo i difensori della Franzoni, l’imputata non ha avuto una giusta possibilità di difesa perché la sua posizione era in contrasto con quella del suo avvocato, il professor Carlo Taormina. Tra imputata e difensore c’era, secondo il ricorso, un «conflitto d’interesse». Erano entrambi indagati nel processo «Cogne bis», cioè nell’inchiesta sulle prove artefatte scoperte nella villetta di Cogne. La Corte d’assise d’appello di Torino era a conoscenza del «Cogne bis». Fatto che è sottolineato più volte nel ricorso dell’avvocato Chicco. E che ha convinto anche il professor Grosso.

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